VARESE, 17 settembre 2020-Tutto lascia capire che difficilmente il 150esimo anniversario della presa di Roma, che cade quest’anno tra pochi giorni, avrà il giusto rilievo nel dibattito pubblico. E non solo per colpa della pandemia. A differenza di altri momenti della storia nazionale, e anche della storia risorgimentale in senso stretto, la data del 20 settembre non sembra aver fatto “breccia” nella coscienza collettiva e nella simbologia nazionale.
Questo, tuttavia, non è necessariamente segno della sua scarsa importanza sul piano storico-culturale, anzi. Qualcuno sostiene che dovrebbe essere celebrata come una delle maggiori date della storia europea dell’Ottocento: sia perché segna simbolicamente la conclusione di quel grande processo politico che è la nascita dello Stato nazionale italiano, sia perché mette termine a una millenaria forma politica in cui il capo di una religione (dal ‘500, anzi, capo di una confessione religiosa) regnava, come un qualsiasi sovrano temporale, su uno Stato europeo tra gli altri, a dispetto della dimensione spirituale e universale della sua natura. Non a caso papa Paolo VI negli anni Sessanta del ‘900 ne ha riconosciuto l’importanza per la vita della Chiesa: la fine del potere temporale segnava l’inizio di una nuova fase in cui esercitare più liberamente la propria missione religiosa nel mondo.
Il fatto che l’acquisizione di Roma da parte dello Stato italiano nato dal Risorgimento appartenga così poco alla religione civile del nostro paese (ammesso che si possa mai parlare di religione civile per la cultura politica dell’Italia) ci dice piuttosto quanto sia stata e sia ancora una data scomoda. Una data, cioè, significativa di un nodo cruciale della nostra storia su cui per molti motivi si continua a inciampare: il nodo dei rapporti tra un potere religioso potente e pervasivo e un potere politico debole perché ripetutamente privato di legittimazione e autorevolezza.
In effetti, dal crollo del suo potere temporale (ma anche prima, sia pure in forme diverse) il pontefice e buona parte della gerarchia cattolica si atteggiarono nei confronti del neonato Stato nazionale come nei confronti di un nemico, scomunicando i protagonisti dell’operazione, facendo ripetutamente naufragare le trattative che la classe dirigente liberale aveva cercato di intavolare da subito, non accettando la legge delle ‘garanzie’ che lo Stato emanò, e con cui si assicurava al pontefice la piena libertà di esercizio dell’attività religiosa, il diritto di avere guardie armate a difesa del Vaticano, del Laterano e della villa di Castel Gandolfo, nonché l’extraterritorialità di queste aree che le esentava dalle leggi italiane e assicurava libertà di comunicazioni e rappresentanza diplomatica.
L’ostilità divenne strutturale soprattutto con la proclamazione del famoso non expedit, in base al quale un cittadino di fede cattolica (e sulla cattolicità della larghissima maggioranza degli italiani del tempo non ci sono dubbi) non avrebbe dovuto partecipare in alcun modo alla vita politica nazionale. La celebrazione stessa di questa data ha una sua storia emblematica: istituita nel 1895 come festa nazionale, fu abolita dopo la cosiddetta Conciliazione voluta da Mussolini e Papa Pio XI, per essere sostituita dalla festa dell’11 febbraio creata per celebrare la firma dei Patti Lateranensi, avvenuta appunto l’11 febbraio 1929.
Quando ci interroghiamo sulle tante anomalie che sembrano inceppare la vita politica del nostro paese, dovremmo avere la lucidità di riconoscere che nessuno Stato in Occidente (e probabilmente neppure altrove) ha mai subito tensioni di questa natura, ha cioè mai visto un’opposizione simile da parte delle principali autorità religiose presenti al suo interno.
Si trattava peraltro di una contrapposizione che era quasi la ‘punta di diamante’ di un più ampio rifiuto che il cattolicesimo intransigente aveva proclamato nei confronti della ‘modernità’ nel suo complesso, e di cui gli Stati liberali erano considerati un intrinseco portato: il rifiuto che portava a negare il valore della libertà di coscienza, di pensiero e di stampa, che si opponeva al suffragio come forma di legittimazione del potere, che condannava la parificazione tra tutte le forme religiose all’interno della società, ecc…. In sintesi potremmo dire che tutta questa complessa vicenda nata sotto il nome di ‘questione romana’ si è trasformata nei decenni in uno dei più influenti fattori di ritardo del paese nella costruzione di una moderna cittadinanza e di una consapevole partecipazione popolare alla definizione dell’interesse collettivo attraverso lo Stato.
Ecco perché, nonostante tutto, ci sono degli italiani che non accettano l’oblio di questa data, pensandola come l’inizio di un processo ancora incompiuto.
Liviana Gazzetta