Ci scrivono: ”Io malata di Covid voglio raccontare la mia esperienza”

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Medici al lavoro in Ospedale Fiera Milano

VARESE, 29 ottobre 2020-Spettabile Redazione,

Vorrei rendere pubblica la mia esperienza di caso clinico Covid e amplificare il più possibile il dibattito sul mancato utilizzo dei mezzi di cui il servizio sanitario nazionale già dispone, apparentemente per l’incapacità di coordinarsi e compattarsi in un fronte comune.
Mi piacerebbe che la vostra testata desse voce alle mie riflessioni non per mania di protagonismo (preferirei anzi rimanere anonima, a meno che questo non significhi sminuire il messaggio) ma perchè trovo scorretto vincolare le aspettative delle persone a quello che si potrà fare (ad esempio con l’arrivo del vaccino), senza tenere in sufficiente considerazione il moltissimo che può e deve essere fatto. Subito!
Perchè sia chiaro che non è il COVID a chiudere le scuole e i ristoranti, nè a svuotare le RSA, nè ad affollare i pronto soccorso. Oggi si muore per l’indecisione e l’inadeguatezza di persone che presidiano organismi delicati come la sanità senza avere la capacità e la competenza per farlo.
È una situazione estrema su cui si dovrebbe riflettere e contro cui si dovrebbe combattere, perché il vaccino è la nostra volontà di cambiare il sistema.

Sono COVID positiva dal giorno 22, e lo so per certo grazie alla premura del management dell’azienda per cui lavoro: il 21 sera ho accusato i primi sintomi e il 22 mattina mi avevano già spedito a fare un tampone rapido, subito rivelatosi positivo, oltre a un tampone molecolare, che ha confermato la positività in 48 ore.
Il 22 a mezzogiorno avevo già informato il mio medico curante, che mi ha immediatamente censita come caso clinico per affidarmi alla tutela del Servizio Sanitario Nazionale.
Cosa avrebbe dovuto succedere?
Il Sistema avrebbe dovuto amministrare la mia positività in due modi: innanzi tutto vigilando sul mio stato di salute, secondariamente accertando e gestendo il rischio derivante dai miei contatti recenti.
A voler ben vedere, ci sarebbe anche un terzo aspetto: quello sociosanitario. Sono pur sempre single, e non credo che il SSN sappia che ho vicini di casa meravigliosamente disponibili, familiari e amici che correrebbero a darmi una mano anche in ginocchio sui ceci, colleghi di lavoro che mi coccolano nonostante li abbia lasciati nelle pesti.
Chiedere se ce la faccio da sola pare troppo?
Limitiamoci però ai primi due aspetti, che si configurano come un bisogno primario: nel 2020 cosa manca, ad un qualunque sistema di tutela della salute del cittadino, per mandarmi un messaggio nel giro di 60 minuti, invece che a 6 giorni di distanza dal censimento della mia positività? Niente! Non serve personale extra,
non serve budget extra, non serve nemmeno inventare chissà quale diavoleria hi-tech, perché la tecnologia del nuovo millennio rende immediatamente perseguibile qualunque obiettivo di comunicazione diretta fra istituzioni e cittadino: infatti il messaggino arriva, ma con un ritardo che lo rende semi-ridicolo e potenzialmente tragico,
perché nel frattempo potrei essere intubata a pancia in giù. Quanti errori potrei aver fatto, in questi sei giorni, per non aver ricevuto le istruzioni cui il messaggio mi rimanda? In piena pandemia, con i contagi che crescono esponenzialmente di ora in ora, io positiva conclamata scompaio dai radar del SSN per ben 6 giorni. Con quali potenziali conseguenze?
Chiaro che, in sei giorni, l’aspettativa sull’efficienza dell’intervento pubblico in mio soccorso monta al pari dell’angoscia che si siano dimenticati di me: quale mirabolante strategia di sostegno necessita di sei giorni di programmazione, visto che dalla scorsa primavera non si è fatto altro che approntare procedure, protocolli, mezzi e risorse?

Cosa mi sta per accadere? Poi la risposta: niente. Un sms e una locandina che mi dice cosa devo fare immediatamente, dimenticando che immediatamente era sei giorni fa.
Non mi arrendo, perché tecnologia e project management sono la mia materia da tanti anni, quindi voglio capire: cosa mi impedisce di essere accudita da un sistema di tele-sorveglianza e Tele-monitoraggio? Anche in questo caso la risposta è disarmante: niente!

Regione Lombardia, dallo scorso marzo, ha attivato una piattaforma di Telesorveglianza e Telemonitoraggio estremamente evoluta e, soprattutto, progettata e dimensionata proprio per far fronte alla pandemia COVID. Allora perché io sono (e resto) monitorata e sorvegliata da familiari, amici e colleghi, invece che dal sistema sanitario nazionale? Cosa manca alla governance della mia città, della mia regione, del coordinamento nazionale, per sfruttare le risorse esistenti? Perché ci concentriamo sull’obiettivo di creare qualcosa che non c’è, quindi non può essere immediatamente risolutivo, invece di efficientare quello che già potrebbe e dovrebbe funzionare?
Sono del ’65, il mondo digitale non è stato sempre il mio mondo: se la pandemia ci avesse travolti 30 anni fa, gli strumenti a disposizioni del sistema sanitario nazionale sarebbero stati probabilmente molto simili a tante mani nude, e le conseguenze inimmaginabili. Ma adesso è il 2020, adesso gli strumenti ci sono, adesso quello che si può
e si deve fare è talmente chiaro che l’abbiamo già realizzato, salvo poi accantonarlo con si fa con i giocattoli dopo l’eccitazione iniziale. Solo che la pandemia non è un gioco, e dare una risposta è necessario: perché in sistema sanitario nazionale si ostina a reagire con tempi ed operare con metodi che rimandano al passato remoto?
Morire di Covid è fatalità, ma morire (o anche solo soffrire) di disorganizzazione, impreparazione, inadempienza è materia di dibattito urgente e cambiamento immediato.

Lettera firmata