VARESE, 21 aprile 2021-Questa pandemia ha rivelato tutti i limiti e le carenze di un SSN che negli anni, silenziosamente ma progressivamente, è stato minato e depauperato. Parliamo ovviamente di struttura, non certo dell’umanità e professionalità dei medici e degli infermieri che sono state le vittime di tali modifiche, rimettendoci anche la vita.
La sanità pubblica in Italia è stata indebolita innanzitutto da un punto di vista di dotazioni finanziarie. Solo negli ultimi dieci anni il SSN ha subito tagli per 37 miliardi di euro. Risorse ingenti che non sono più andate a coprire i fabbisogni sanitari dei cittadini.
I posti letto sono diminuiti negli ultimi anni, per scelte politiche che hanno riguardato tutte le regioni. Dai 530.000 posti letto del 1981 ai 365.000 (1992) ai 245.000 (2010) per arrivare ai 191mila del 2017, ultimo dato disponibile*. In rapporto al numero di abitanti, siamo passati da 5,8 posti letto ogni mille abitanti del 1998, ai 4,3 nel 2007 ai 3,6 nel 2017. E questa riduzione, ovviamente, ha colpito anche le Terapie Intensive (proprio quelle che vediamo ogni giorno in televisione) dove l’Italia distacca (in negativo) con 2,6 posti ogni 1000 abitanti Paesi come la Germania (6 T.I. /1000 abitanti), l’Austria (5,5), la Polonia (4,8), la Grecia (3,6) e la Francia (3,1).
In Lombardia purtroppo c’è di più. Si è proceduto anche allo svuotamento delle funzioni della medicina territoriale, a causa di riforme sbagliate, che hanno depotenziato ruolo dei medici generici, di fatto svuotati delle loro competenze. E li abbiamo visti, i medici generici, in piena pandemia: completamente abbandonati a sé stessi, privi di indicazioni, istruzioni operative, attrezzature, modalità di approccio ai malati, dispositivi di protezione. Il che tra le altre cose ha causato una ecatombe tra i medici di base (40% dei sanitari morti durante la pandemia).
C’è dell’altro. La gestione delle pandemie deve essere gestita con misure straordinarie previste, disegnate e collaudate in un tempo precedente, predisponendo un piano di lotta alle pandemie che preveda istruzioni operative, attrezzature e una precisa catena di comando. Vale la pena ricordare, a questo proposito, che un Piano contro le pandemie influenzali esiste a livello nazionale da anni, e prevede analoghi Piani da implementare a livello regionale. Fu elaborato nel 2006 su richiesta dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per prepararsi ad affrontare il rischio di pandemie influenzali a seguito delle epidemie di influenza aviaria. E’ stupefacente, leggendo le pagine del Piano, osservare che molte delle misure indicate prevedono interventi e modalità operative che da soli avrebbero certamente fronteggiato la pandemia in atto con maggiore efficacia. Solo alcuni esempi: la predisposizione di scorte di materiali protettivi (mascherine, calzari, camici differenziati in funzione delle operazioni da mettere in atto). Sarebbe interessante capire il perché, dato che molte delle misure avrebbero certamente agevolato la lotta contro il Covid 19. Sarà questo il motivo per cui nel 2019 il Global Health Security Index elaborato dall’Università J Hopkins ha classificato l’Italia al 31mo posto dei Paesi aderenti all’Organizzazione Mondiale della Sanità, assegnando alla pianificazione ad affrontare le emergenze sanitarie una valutazione più alta della media (18.8 su una media di 16.9 degli altri Paesi) ma con una capacità di risposta all’emergenza pari a ZERO (su una media di 23,6 degli altri Paesi). Insomma, in quanto a predisporre piani siamo bravi, ma in quanto a metterli in atto siamo indietro anni luce.
E’ per questi motivi, e per molti altri che per brevità non si elencano, che lascia sgomenti quando i politici attuali parlano di modello sanità italiano, o di sistema lombardo di eccellenza. Di modello, purtroppo, non se ne è vista traccia.
Nessun altro fenomeno come la pandemia mette allo scoperto i difetti di funzionamento del sistema di tutela della salute. La lezione che dovremmo imparare riguarda elementi di base della nostra politica sanitaria, e la sola idea che un aspetto così delicato e che riguarda tutti indistintamente venga gestito autonomamente dalle Regioni, guardando e confrontando la loro performance nell’attuale pandemia, fa solo rabbrividire.
E’ da qui che dobbiamo ripartire, per riuscire davvero a realizzare un modello di sanità pubblica funzionante nell’interesse dei cittadini. Siamo convinti che, una volta
passata la pandemia e metabolizzato il lutto, ci sarà da metter mano al livello di finanziamento, che andrà allineato a quello degli altri Paesi membri UE come spesa pro capite, ad una organizzazione della medicina territoriale che deve essere rafforzata seguendo l’esempio delle Regioni dove ha arginato l’urto della pandemia, rivedendo sia i letti a disposizione che le terapie intensive, e soprattutto garantendo che il sistema sanitario (definito Nazionale dalla legge 833/78) sia davvero nazionale e non possa prevedere gli scenari drammaticamente diversi che abbiamo visto nelle Regioni colpite.
Il diritto alla salute non può contare su trattamenti differenziati a seconda del posto dove le persone risiedono. Con ogni probabilità, è questa la priorità su cui lavorare dopo che la pandemia sarà risolta, al fine di garantire la tutela della salute come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” (art. 32 della Costituzione).
Verdi cittá di Varese